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lunedì 17 aprile 2017

Dalla forma urbis alla forma civitatis

Carissimi Eddy, Ilaria e Mauro (sì vi considero degli amici, molto speciali, che con le attività e le parole mi fanno dei favolosi regali), vorrei dirvi che questa puntata della SDE è stata veramente molto interessante e utile. Nel mio piccolo intervento avrei voluto dire tante cose ma mi sono rimaste dentro. Provo a scriverle.

Abbiamo toccato punti cruciali per il futuro non solo nostro (urbanisti o, come me, appassionati della disciplina della evoluzione della città), ma della nostra convivenza in una comunità accogliente e, come si dice, inclusiva; che guardi al futuro senza spaventarsi delle macerie che ha alle spalle (o sulle spalle). Una nuova lettura dell’Angelus Novus di Benjamin. Una metafora che uso spesso è che la multiculturalità è la culla dove stiamo facendo crescere la comunità di domani; come sarà questa futura comunità dipende da come tratteremo questo piccolo cucciolo ancora indifeso e indefinito. La ragazza di Torino, quella di Settimo Torinese, Daniela e Levente (che ringrazio ancora) hanno fatto vedere alcune direzioni da intraprendere, interessantissime e concrete. I tanti altri interventi hanno disegnato la cornice di un quadro che ancora non è disegnato, ma su cui si stanno tracciando segni, incerti quanto significativi.

L’urbanistica dove liberarsi dalla monocultura della “forma urbis” ormai oggetto di un “accanimento terapeutico” forse dato dall’incapacità di volgere lo sguardo verso la nuova “forma civitatis” (perdonate il mio latino, ma spero di farmi capire), la complicità dell’attuale “polis” in questo accanimento, più che evidente, è responsabile del vuoto valoriale e del pieno materiale delle nostre città. Ho parlato di “relazioni” non certo intendendo relazioni di potere, ma consapevole che le relazioni fra le parti, animate e non, sono la base dell’ecologia. In questo i tanti contributi ascoltati mi hanno fatto capire la necessità (per gli urbanisti o, come me, per gli appassionati della disciplina della evoluzione della città) di vedere tutte quelle nuove relazioni fra le persone di diverse culture, nei nuovi contesti, la traccia della “rete” nuova che dovrà formare le nuove “carte tematiche e progettuali” individuanti la nuova forma della città, più immateriale che materiale (laterizio, cemento, ferro o legno che sia). Certamente corrono il rischio di essere relazioni di base, policentriche e dinamiche, ed in ciò poco o difficilmente controllabili e/o amministrabili.

Forse è per questo che la “polis” non le ritiene così strettamente necessarie come, invece, la costruzione di una tangenziale? Le strutture culturali diventano quindi i nodi, di varia grandezza ma egualmente importanti, di questa rete di relazioni della città. I nodi dove ci si incontra, si condividono le rispettive culture, ci si confronta sul concetto di bello, di utile, sul concetto di qualità dei luoghi e della vita.

Come architetto mi interessa anche dare una forma fisica ai nodi di questa rete, prima però vorrei capirli bene. Per questo mi piacerebbe continuare questo lavoro di ricerca e di confronto con quelle persone che, come tutti voi, abbiano a cuore il benessere di quella culla in cui sta nascendo la comunità di domani, così come della comunità stessa. Parafrasando la bellissima frase di Gandhi citata da Ilaria, credo che con il tema della sicurezza, decisamente importante quanto troppo dominante, si stia cercando di convincere i più a chiudere le finestre per impedire che i tanti venti delle culture diverse possano attraversare la nostra casa; ma facendo così non facciamo altro che opporre resistenza per un po’ inconsapevoli che agevoliamo la forza del vento che arriverà a sradicare le fondamenta.

Norberto Vaccari
Bioarchitetto